Se si trattasse di reincarnazione?
Da: Mariateresa Fumagalli
Jane Austen
Steventon (Hampshire) 1775 - Winchester 1817
Se Cassandra Austen, la sorella maggiore così amata, non avesse bruciato quasi tutte le numerose lettere indirizzatele da Jane, forse l’avremmo conosciuta meglio: Jane Austen è un personaggio limpido solo all’apparenza, in realtà enigmatico e quasi insondabile ai nostri occhi di “moderni” (La Woolf scrive: «imperscrutabile e misteriosa rimarrà sempre»).
La sua vita si svolge in un tempo breve e in uno spazio limitato: a Oxford e Reading con la sorella per studiare; nel Gloucestershire, nel Kent, a Bath in visita da parenti; in Cornovaglia e nel Galles e infine a Winchester, nell’illusione di potersi meglio curare dalla sua malattia allora ignota, probabilmente una forma del morbo di Addison, che le causò molte sofferenze e una morte prematura.
La sua esistenza scorre senza avvenimenti clamorosi, in una famiglia borghese e benestante di otto figli con padre ecclesiastico: è una vita senza scosse, ma probabilmente non monotona, attenta alle relazioni, agli affetti e alle amicizie, ai ritmi della natura, osservata dalla finestra del salotto, là fuori, nel giardino ben curato. Qualche viaggio a Londra, letture, musica, conversazioni, sciarade, recite in salotto e nel granaio di casa, feste da ballo e pic nic, forse due amori infelici o comunque incompiuti di cui sappiamo poco o nulla: ecco tutto. Almeno così sembra.
Com’era Jane? Il fratello Henry la descrive alta e graziosa, allegra, simpatica, ottima conversatrice, amante delle cose belle, giardini, fiori, libri e case… Nel ritratto fatto dalla sorella Cassandra appare invece insignificante, i riccioli che sfuggono dalla cuffia, faccia tonda, bocca stretta e sottile. Forse però l’impressione sconcertante dipende dall’arte non eccelsa della disegnatrice. Jane era probabilmente carina, «non abbastanza bella» (come diceva Darcy di Elisabeth Bennet prima di innamorarsi) ma con gli occhi grandi e vivi, dotata dell’intelligenza pronta e penetrante e della conversazione acuta ed elegante che, leggendo Pride and prejudice, possiamo ammirare ancor oggi nella maggiore delle sorelle Bennet.
Nella classifica dei grandi romanzieri inglesi la Austen è considerata – notava Virginia Woolf «la prima o la seconda o al massimo la terza in ordine di importanza e fama»; nella storia del romanzo (questo “portavoce della borghesia” come lo definisce Mario Praz) la Austen è «l’estremo limite del carattere antiromantico» e rappresenta nel suo tempo la persistenza dell’atteggiamento razionalista del romanzo illuminista. «Un romanzo in miracoloso equilibrio fra due secoli», scrive Attilio Bertolucci a proposito di Pride and Prejudice, e verrebbe da aggiungere fra il giardino e lo spazio aperto e incommensurabile, spesso teatro di un temporale che coglie di sorpresa i suoi personaggi, insidioso e sublime.
Sono definizioni utili a capire il tempo e in parte i modi della scrittura della Austen, che non esauriscono però la complessa percezione che abbiamo leggendo i suoi sei romanzi, soprattutto i più grandi Pride and prejudice, Sense and sensibility, Emma, nei quali il centro, almeno apparentemente, è l’amore, l’aspirazione al matrimonio e le complesse manovre per arrivarci. Quello sguardo di Jane così lucido, vicino e attento alle emozioni trattenute a fatica, ai rossori improvvisi dei suoi personaggi, quell’ironia lieve e affettuosa che sottolinea l’inclinazione (soprattutto maschile) a un comportamento corretto anzi rigido, e, al contrario, la positiva considerazione del coraggio silenzioso e della padronanza sugli eventi, dell’attenzione ai piccoli gesti e alle parole più che ai discorsi, e l’apprezzamento palese della pazienza “attiva” di fronte alle sventure e ai dispiaceri, propria delle ragazze Bennet o Dashwood, sono tutti aspetti che si attribuiscono spontaneamente alla singolare intelligenza dell’autrice più che a una scelta stilistica.
Le stanze di una casa di campagna, bella ma non grandiosa, sono lo scenario di un via vai di personaggi: da un lato i protagonisti che esitano a svelarsi l’uno all’altro e sullo sfondo i comprimari che, come in una pièce teatrale agitandosi in modo esagerato e buffo (quelle madri che parlano troppo, sventatamente e senza logica ...) hanno il compito di far risaltare gli sguardi e i silenzi dei primi. Il romanzo diventa quasi teatro: Jane è la regista esperta del suo piccolo mondo che appare secoli dopo inspiegabilmente ancora così vero, forse perché descritto sempre da una posizione ravvicinata ai personaggi. Una verità attraente e illusoriamente “completa”, tanto che il lettore può pensare di poterla comprendere e sperare di abitarvi: ma essa sta tutta soltanto nel genio di chi scrive.
Si tratta invece di un “piccolo mondo” ritagliato con arte consapevole (crudele?) dal grande mondo. Fuori dalle case e dai giardini di Elisabeth, Elinor e Emma, lontano dalle campagne serene e soprattutto dai pensieri e dalle conversazioni dei protagonisti, infuria la guerra contro Napoleone; nelle strade di Londra sono evidenti i segni della miseria dei più, insieme agli effetti entusiasmanti e alla immane fatica generata dalla rivoluzione industriale.
Sulle qualità morali delle donne e degli uomini il giudizio più negativo è quello della Woolf che pensa che nella Austen ci sia «troppa poca ribellione, troppo poca insoddisfazione» e che non ci sia stata epoca «in cui donne e uomini siano stati meno a loro agio insieme». Credo si possa dissentire in parte dalla grande Virginia. La “mancanza di ribellione” nel descrivere la società del suo tempo, circoscrivendola in un'isola quasi felice, fuori dalla storia collettiva, non è, a mio parere, dovuta a pigrizia intellettuale o mediocrità morale, ma è una scelta singolare e forte dell’autrice che intende così rappresentare “oggettivamente” la verità di un mondo, quel mondo, il solo che conosce. E lo fa in modo così miracolosamente efficace da sembrare approvazione.
Ma non si può non avvertire l’amarezza nella riflessione di Jane che scrive «Le donne sole hanno una spaventosa tendenza a essere povere e questo è un fortissimo argomento a favore del matrimonio».
da La letteratura inglese dai romantici al Novecento
... Guardiamo il ritratto della scrittrice: una signorina positiva, in cuffietta pieghettata e scollo pieghettato; la fronte è ombreggiata dai riccioli, gli occhi son grandi e paion benigni, ma le labbra son sottili e crudeli, si da distruggere l’impressione di benignità suggerita da quelli. Il significato di questa figura è incerto; non è un volto misterioso, e al tempo stesso pare impenetrabile.
Jane Austen
Steventon (Hampshire) 1775 - Winchester 1817
Se Cassandra Austen, la sorella maggiore così amata, non avesse bruciato quasi tutte le numerose lettere indirizzatele da Jane, forse l’avremmo conosciuta meglio: Jane Austen è un personaggio limpido solo all’apparenza, in realtà enigmatico e quasi insondabile ai nostri occhi di “moderni” (La Woolf scrive: «imperscrutabile e misteriosa rimarrà sempre»).
La sua vita si svolge in un tempo breve e in uno spazio limitato: a Oxford e Reading con la sorella per studiare; nel Gloucestershire, nel Kent, a Bath in visita da parenti; in Cornovaglia e nel Galles e infine a Winchester, nell’illusione di potersi meglio curare dalla sua malattia allora ignota, probabilmente una forma del morbo di Addison, che le causò molte sofferenze e una morte prematura.
La sua esistenza scorre senza avvenimenti clamorosi, in una famiglia borghese e benestante di otto figli con padre ecclesiastico: è una vita senza scosse, ma probabilmente non monotona, attenta alle relazioni, agli affetti e alle amicizie, ai ritmi della natura, osservata dalla finestra del salotto, là fuori, nel giardino ben curato. Qualche viaggio a Londra, letture, musica, conversazioni, sciarade, recite in salotto e nel granaio di casa, feste da ballo e pic nic, forse due amori infelici o comunque incompiuti di cui sappiamo poco o nulla: ecco tutto. Almeno così sembra.
Com’era Jane? Il fratello Henry la descrive alta e graziosa, allegra, simpatica, ottima conversatrice, amante delle cose belle, giardini, fiori, libri e case… Nel ritratto fatto dalla sorella Cassandra appare invece insignificante, i riccioli che sfuggono dalla cuffia, faccia tonda, bocca stretta e sottile. Forse però l’impressione sconcertante dipende dall’arte non eccelsa della disegnatrice. Jane era probabilmente carina, «non abbastanza bella» (come diceva Darcy di Elisabeth Bennet prima di innamorarsi) ma con gli occhi grandi e vivi, dotata dell’intelligenza pronta e penetrante e della conversazione acuta ed elegante che, leggendo Pride and prejudice, possiamo ammirare ancor oggi nella maggiore delle sorelle Bennet.
Nella classifica dei grandi romanzieri inglesi la Austen è considerata – notava Virginia Woolf «la prima o la seconda o al massimo la terza in ordine di importanza e fama»; nella storia del romanzo (questo “portavoce della borghesia” come lo definisce Mario Praz) la Austen è «l’estremo limite del carattere antiromantico» e rappresenta nel suo tempo la persistenza dell’atteggiamento razionalista del romanzo illuminista. «Un romanzo in miracoloso equilibrio fra due secoli», scrive Attilio Bertolucci a proposito di Pride and Prejudice, e verrebbe da aggiungere fra il giardino e lo spazio aperto e incommensurabile, spesso teatro di un temporale che coglie di sorpresa i suoi personaggi, insidioso e sublime.
Sono definizioni utili a capire il tempo e in parte i modi della scrittura della Austen, che non esauriscono però la complessa percezione che abbiamo leggendo i suoi sei romanzi, soprattutto i più grandi Pride and prejudice, Sense and sensibility, Emma, nei quali il centro, almeno apparentemente, è l’amore, l’aspirazione al matrimonio e le complesse manovre per arrivarci. Quello sguardo di Jane così lucido, vicino e attento alle emozioni trattenute a fatica, ai rossori improvvisi dei suoi personaggi, quell’ironia lieve e affettuosa che sottolinea l’inclinazione (soprattutto maschile) a un comportamento corretto anzi rigido, e, al contrario, la positiva considerazione del coraggio silenzioso e della padronanza sugli eventi, dell’attenzione ai piccoli gesti e alle parole più che ai discorsi, e l’apprezzamento palese della pazienza “attiva” di fronte alle sventure e ai dispiaceri, propria delle ragazze Bennet o Dashwood, sono tutti aspetti che si attribuiscono spontaneamente alla singolare intelligenza dell’autrice più che a una scelta stilistica.
Le stanze di una casa di campagna, bella ma non grandiosa, sono lo scenario di un via vai di personaggi: da un lato i protagonisti che esitano a svelarsi l’uno all’altro e sullo sfondo i comprimari che, come in una pièce teatrale agitandosi in modo esagerato e buffo (quelle madri che parlano troppo, sventatamente e senza logica ...) hanno il compito di far risaltare gli sguardi e i silenzi dei primi. Il romanzo diventa quasi teatro: Jane è la regista esperta del suo piccolo mondo che appare secoli dopo inspiegabilmente ancora così vero, forse perché descritto sempre da una posizione ravvicinata ai personaggi. Una verità attraente e illusoriamente “completa”, tanto che il lettore può pensare di poterla comprendere e sperare di abitarvi: ma essa sta tutta soltanto nel genio di chi scrive.
Si tratta invece di un “piccolo mondo” ritagliato con arte consapevole (crudele?) dal grande mondo. Fuori dalle case e dai giardini di Elisabeth, Elinor e Emma, lontano dalle campagne serene e soprattutto dai pensieri e dalle conversazioni dei protagonisti, infuria la guerra contro Napoleone; nelle strade di Londra sono evidenti i segni della miseria dei più, insieme agli effetti entusiasmanti e alla immane fatica generata dalla rivoluzione industriale.
Sulle qualità morali delle donne e degli uomini il giudizio più negativo è quello della Woolf che pensa che nella Austen ci sia «troppa poca ribellione, troppo poca insoddisfazione» e che non ci sia stata epoca «in cui donne e uomini siano stati meno a loro agio insieme». Credo si possa dissentire in parte dalla grande Virginia. La “mancanza di ribellione” nel descrivere la società del suo tempo, circoscrivendola in un'isola quasi felice, fuori dalla storia collettiva, non è, a mio parere, dovuta a pigrizia intellettuale o mediocrità morale, ma è una scelta singolare e forte dell’autrice che intende così rappresentare “oggettivamente” la verità di un mondo, quel mondo, il solo che conosce. E lo fa in modo così miracolosamente efficace da sembrare approvazione.
Ma non si può non avvertire l’amarezza nella riflessione di Jane che scrive «Le donne sole hanno una spaventosa tendenza a essere povere e questo è un fortissimo argomento a favore del matrimonio».
da La letteratura inglese dai romantici al Novecento
... Guardiamo il ritratto della scrittrice: una signorina positiva, in cuffietta pieghettata e scollo pieghettato; la fronte è ombreggiata dai riccioli, gli occhi son grandi e paion benigni, ma le labbra son sottili e crudeli, si da distruggere l’impressione di benignità suggerita da quelli. Il significato di questa figura è incerto; non è un volto misterioso, e al tempo stesso pare impenetrabile.
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