Il senso dell'opportunità

Decenza, discrezione, tatto, delicatezza, riguardo o qualsiasi altro sinonimo si desidera usare per indicare il senso dell’opportunità, sarebbe ben accetto.
Negli eventi gioiosi, come in quelli tristi, il senso dell’opportunità andrebbe indossato come un abito, elegante e sobrio, durante una cerimonia.
Invece non esiste. Non se ne avverte la presenza.
Le grandi sofferenze e le grandi gioie, sono del parere che vadano vissute nel privato. I pianti teatrali e le grida di giubilo hanno sempre tolto compostezza al dolore e pathos all’allegria.
In questi giorni da “dopo sisma”, mi sono resa conto che accanto agli sciacalli responsabili di alcune sciagure, c’è un’altra categoria di sciacalli che non hanno altra responsabilità se non quella di raccontare il dolore in tempo reale come se si trattasse di una raffinata regia.
Le tragedie di questo genere, a loro modo si assomigliano tutte. Ciò che non dovremmo mai permettere è la spettacolarizzazione degli eventi. Né la rassegnazione. Quest’ultima mi fa paura.
Non mi sento in colpa perché durante il sisma io ero in vacanza e mi divertivo. Né vergognarmi perché avrò cenato fuori o visto un film al cinema quando molta gente soffriva o moriva.  Dovrò sentirmi veramente in colpa quando, passate le emergenze del momento o per lo meno quando questa emergenza verrà superata da un fatto altrettanto grave se non più, anestetizzata dalle parole di radio, tv, giornali e gente da bar, tornerò alla mia solita vita. Rassegnata al fatto che eventi del genere accadono e accadranno di nuovo e sarò di nuovo pronta ad ascoltare le solite storie, le solite scuse, i soliti progetti irrealizzati e le solite accuse.
Non puoi, almeno non completamente, prevedere gli eventi della natura che non è maligna. E’ non è maledicendola, né dicendo a te stesso che tutti siamo sotto lo stesso cielo che ti proteggerai. Siamo noi a dover cambiare. Tutti quanti. Non è solo colpa dell’individuo venale che pensa solo al proprio guadagno. Né di chi ride delle disgrazie altrui perché diventano l’opportunità per arricchirsi le tasche o il proprio curriculum. In parte è colpa di noi tutti che guardiamo alle nostre disgrazie come spettatori rassegnati e non riusciamo a capire come diventare registi delle nostre vite. Tanto siamo abituati a farci rimbambire dalle parole dette in TV, da esperti, scienziati, politici e Dio ce ne scampi Opinionisti di quei talk show spacciati per opportunità di confronto e invece soltanto contenitori per pavoneggiarsi. Trasmissioni piene di collegamenti e scoop su gente che si ritrova, eroi del momento e cronistoria del dolore. E mentre fuori la vita continua a scorrere, per noi fortunati, preferiamo rimanere lì, attoniti. Attenti e intenti a non vivere le nostre vite, ribellarci, proporre, costruire, lottare. Fare finalmente a meno dei burattinai. Siamo seduti sulle nostre poltrone comode (per ora) a vivere le disgrazie altrui, stupidamente convinti che resteranno degli altri e non sarà mai il nostro turno. Molto presto il dolore verrà cantato su un palco e edulcorato da una fascia tricolore sulle bare di tutta quella povera gente. E ci commuoveremo per questo. Per il teatro che si fa delle nostre vite.
Di questo bisogna sentirsi in colpa. Non di vivere la propria vita che, dopotutto, fa parte del normale corso delle cose. Le brutte cose accadono anche sotto un bel cielo terso e questo ci sconvolge. E il problema diventa il contesto e non il fatto.

Aiutiamo, aiutiamoci, ma restiamo in silenzio. Le parole non servono a farci capire il dolore o la perdita. Né possono calmare i tumulti dell’anima. Non lasciamoci inebetire. La rassegnazione è una brutta alternativa. L’accettazione è ben altro. Anche se difficile da raggiungere. 

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