L'infinito
Sarà pure vero che l’erba del
vicino è sempre più verde, ma il prossimo 24 Novembre vorrei trovarmi in
America e festeggiare il Ringraziamento.
La storia dei padri pellegrini e
dei nativi americani viene raccontata in un’ottica non proprio obbiettiva e il
Ringraziamento, letto nella chiave giusta, dovrebbe diventare il giorno delle
scuse che i padri pellegrini dovrebbero ai nativi americani, ma io non posso
non pensare che dall’altra parte dell’oceano ci saranno tante persone che a
partire dal primo pomeriggio del 24 novembre, si riuniranno per dire grazie e
anche, sì, per mangiare. Azione meno nobile, ma per qualcuno divertente.
Non posso fare a meno di
immaginare il fine pasto concludersi con un dolce alla zucca o una torta di
mele e un caffè bollente da sorseggiare seduti sul portico a guardare le
finestre accese dei vicini di fronte o, se fortunati, le fronde ingiallite
degli alberi e l’oceano all’imbrunire o l’orizzonte aperto e pianure
sterminate. E dietro quell’orizzonte, tante possibilità, come una volta era il
grande sogno americano.
Sarà che è semplice romanzare una
realtà che rosea non è, se quella realtà non ti appartiene. Eppure, non riesco
a non provare una sana invidia per tutti coloro che quel giorno si siederanno
attorno ad un tavolo e proveranno a dire Grazie.
Questa azione del sedersi sul portico
di casa ad osservare il panorama e ad ascoltare il silenzio, mi fa sentire
tanto Leopardi e il suo Infinito.
Ma sedendo e mirando,
interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare
Cosa avrà mai di magico per me,
questo portico mille volte immaginato e altrettante desiderato e come si lega a
me, non saprei dirlo. Molte volte sono
cambiati gli eventi e i panorami da osservare, ma l’osservatore assorto e
attento sono sempre stata io. Cambiavano le stagioni, i colori e i suoni del
pomeriggio, ma io sono sempre rimasta con il mio tazzone in mano a contemplare.
Pensavo che togliendo il tavolo,
il tacchino ed i parenti non è detto che Grazie, quel giorno, o tutti i giorni,
non possa provare a dirlo anche io. Partendo dalle più piccole cose.
Soprattutto da quelle.
Pensavo fosse facile trovare una
lista di cose per le quali ringraziare. E forse lo è, se mi limito a fare la
conta e basta, di cose che ho e delle quali non me ne importa nulla o per cose
che ho fatto e che avrei anche potuto evitare di fare, senza rimpianto alcuno.
Forse è già un lavoro interiore
impegnativo trovare ogni giorno, un grazie di cuore, un grazie sincero da dire.
Perché spesso soffriamo per ottenere e quando otteniamo spostiamo l’attenzione
ad altro per tornare a soffrire ancora. Perché c’è sempre qualcosa da
conquistare o un mulino a vento contro cui combattere. Ma se proviamo a posare lo sguardo dentro di
noi, a scrutarci, potremmo capire che ci sono cose che sono sempre rimaste con
noi. O persone. Sono quelle per cui dobbiamo ringraziare. Non per forza Dio.
Alziamo semplicemente gli occhi al cielo e diciamo grazie. Non perché nel cielo
vivano gli Dei, ma solo per distogliere l’attenzione dalle cose terrene.
Ed io oggi dico grazie per il mio
caffè lungo cucinato con la caffettiera francese in finto rame. Per la magia
del rito di preparazione. Per il latte caldo che lo ha ingentilito e per il
tortino caldo al cacao che mi ha addolcito la mattina.
Sono solo piccole certezze, ma
che riescono a scaldarci il cuore. Soprattutto quando le grandi crollano.
Crollando le grandi certezze, ci
vediamo costretti a rielaborare le nostre vite. Trovare una posizione diversa,
la centratura che abbiamo perso. E’ un lavoro lungo e necessario. E durante
questo lavoro, le piccole certezze, i piccoli riti, i grazie per le piccole
cose, sono validi punti cardini sui quali possiamo fare affidamento.
Siamo costantemente in divenire.
E il corpo ce lo ricorda. Invecchiamo. Ce ne accorgiamo un giorno, osservandoci
allo specchio. Lo sguardo ha perso smalto, la pelle del collo non è più liscia
e tonica come un tempo. E lì inizia la duplicità degli stati d’animo. Un misto
di accettazione e paura. Cambia tutto,
anche i punti di vista.
Non ci hanno mai insegnato che
invecchiare è solo uno stadio dell’esistenza e non una sconfitta.
Si nasce, si cresce, si invecchia
e si muore. E’ un ciclo naturale e invecchiare e morire appartengono alla
natura delle cose e non dipendono dagli obbiettivi raggiunti. Nessuno vive
inutilmente. Un grande eroe ha solo interpretato il ruolo dell’eroe e il
perdente non ha vissuto invano.
Giochiamo tutti dei ruoli. Crescendo
e invecchiando iniziamo ad interpretare meglio le percezioni ed i segnali,
forse perché meno interessati agli impulsi del quotidiano. Forse è questo
quello chiamano maturità. Ma quanta gente riesce a maturare sul serio? E
soprattutto, io ci riuscirò?
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