Oltre lo specchio



Ho imparato, con il tempo, ad esprimere quello che sento.
Poco tempo dopo ho disimparato e ho capito che tenersi le emozioni dentro non fa male per niente.
Salvo per i pochi fortunati che sono circondati da persone che provano empatia per loro, per il resto del genere umano, cercare di condividere le emozioni è solo un gioco al massacro. Sia che si tratti di emozioni considerate positive, quali gioia, allegria, amore… sia che si tratti di emozioni che ci hanno insegnato a considerare negative: tristezza, delusione, rabbia, mal di vivere…
A nessuno interessa realmente essere partecipe delle condizioni emotive altrui. Non riesco a capire come qualcuno non se ne renda conto e continui a raccontare di sé, delle sue esperienze, del proprio vissuto e non capti quello sguardo vago, disinteressato e finto dell’interlocutore.
E poi, penso che i sentimenti vadano tenuti nel segreto della propria pancia, testa, stomaco o in qualunque posto ci sia spazio per custodirli. Segreti i progetti e le intenzioni. Segrete le sofferenze e le piccole gioie quotidiane. Custodire qualcosa dentro che tutti gli altri ignorano ti dà quella strana ebbrezza di custodire un segreto speciale e, anche se paradossale, ti fa venire quello strano sguardo di mistero di chi sa, conosce, ma non svela.
Io non sto a mio agio con le persone che parlano troppo. Proprio non ce la faccio. Per me, quel chiacchiericcio continuo non fa altro che rendermi sorda e insensibile nel percepire quello che questa persona chiacchierona realmente è. Sarà che sono troppo abituata al silenzio, sarà che la mia vita non è tutto questo fuochi di artificio, sarà pure che sono egocentrica, ma molte parole che sento sono semplicemente da buttare.
Questo senso di estraneità mi capita pure quando leggo dei libri dove le parole non sono scritte di pancia, ma vengono studiate, messe lì come un accessorio su un vestito, ma il vestito è comunque di stoffa pessima e l’accessorio sottolinea il difetto e non impreziosisce nulla. Amo chi sa, ma sa parlare bene. Per questo, se mi capita fra le mani di leggere libri o racconti o scritti qualsiasi che sfacciatamente vogliono apparire ricercati, fantasiosi, briosi, non ci perdo più tempo come una volta e passo oltre. Qualcuno l’ho pure buttato.
E con il tempo, si fa sempre meno pressante la frenesia di possedere le cose. Di circondarsi di simboli tanto cari quanto vuoti. Le necessità di avere o associare un’etichetta mi rende asfittica. I cloni che si vedono in giro sono tanti. Tutti abbigliati allo stesso modo, con la stessa auto, lo stesso telefono, le stesse vacanze e la stessa birretta o aperitivo da fine settimana. Quanta tristezza.
Si passa da una categoria all’altra, ma comunque si vive come in una catena di montaggio. Non ci si ferma a chiedersi, osservare, domandare. Tutto si misura con l’avere e l’apparire, il desiderare e l’ottenere. Ed è una continua ed eterna corsa. Inutile, perché non si può avere tutto.
Adesso che è arrivata l’estate mi capita di incontrare in spiaggia gente che passeggia con la borsetta trasparente di plastica che funge da custodia impermebile per il telefonino. Sembrano tutti uguali. Tanti San Bernardi (i cani) che portano la borraccetta al collo. Parte uno e tutti dietro. Come pecore. Tutti pronti a giurare che tutto serve. Se chiedi come si faceva prima, la risposta è che non importa: adesso cìè.
Non sono una che odia il progresso. Odio il progresso scemo. Detesto la gente che si accoda. Sarà che in gruppo si sente meno il vuoto del silenzio. Quello fa troppa paura. Il gregge, il branco… Si sta in gruppo come gli animali, ma per scopi che non servono a nulla. Perché poi, se si ha bisogno veramente, il branco spesso ti abbandona. E’ bella la giostra finché gira. Ma quando si ferma ti accorgi che il cavallo ha l’orecchio sbreccato, che il palo è arrugginito e ti sei seduto sopra una macchia di gelato stantia.
Io mi accorgo ogni giorno di tante cose. E mi sento allo stesso tempo libera e sola. E sono vertigini tutte e due. Non mi basta più l’osservazione profonda che dura cinque minuti. Poi ci si saluta velocemente per rincorrere cose insensate. Ma almeno l’insensatezza fosse dettata dalla fantasia, dalla creatività.
E’ una insensatezza sciocca. E’ sterile, ma riesce a partorire mostri comunque.
E intanto io mi sento come dietro ad uno specchio. Quello che è aldilà è distorto e non lo riconosco più.

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