Un'aliena in città

Sono un’aliena in questa città e dire che ci vivo dalla nascita. Sarei stata sicuro meglio in un paesino della Svizzera o in una piccola contea americana. Qui mi trovo fuori posto. Se appartenessi ad una categoria specifica di sicuro sarei l’unico elemento che non si è evoluto con il passare del tempo, quindi un ottimo soggetto di studio per gli scienziati.
Tempo fa un ragazzo mi accusò di vivere in un mondo tutto mio. L’ho odiato, anche perché lo conoscevo appena e si permetteva di dare giudizi non richiesti. Eppure non aveva tutti i torti. Non è che io viva sulle nuvole, magari! Il problema è che non sono malleabile e se ci provo assumo strane forme.
Se dovessi paragonarmi ad un animale oscillerei fra il gufo e la chiocciola. Il primo perché è un animale notturno che si muove quando tutto il resto dorme; la seconda perché va avanti con decisione, ma si ritrae non appena sopravviene un elemento di disturbo. Ma non è di questo che mi preme parlare. Che io sia ostile di natura lo so e oramai lo sanno tutti quelli che mi conoscono.
Il problema è che l’essere aliena nella città nella quale vivo mi preclude ogni iniziativa. Mi sono resa conto che agli occhi degli altri io non esisto. Eppure non riuscirei ad essere diversa da come sono.
Al lavoro sono un’altra persona e qualcuno mi ha battezzato come multitasking: riesco a seguire più cose contemporaneamente. Premete il bottone Alt+Tab e vedrete tutti i processi nei quali sono impegnata. Nel privato, invece, faccio fatica a tenere anche una sola finestra attiva. Spesso sono in stand by, a meno che non debba occuparmi delle cose che mi piacciono, in quel caso riacquisto il mio sprint.
Che io fossi un’aliena me lo dicevano anche i parenti e gli amici che venivano farci visita a casa. Cosa ci facesse una ragazzina biondo miele e diafana in una famiglia di mori ed olivastri, o una bambina schiva in una famiglia di caciaroni o peggio ancora una lingua biforcuta in una famiglia di bonaccioni, erano le domande consuete.
Di essere un elemento fuori contesto lo so dalla nascita, o almeno, sin da quando ho iniziato a capire, però non posso essere una singolo tassello di un puzzle, il resto da qualche parte ci deve essere, no? A meno che non sia andato distrutto e allora è vera la faccenda dell’aliena.
Nell’attesa che una navicella spaziale o il vascello di Corto Maltese ( data la mia propensione per il mare) mi porti via devo per forza muovermi in questa realtà.
Ieri sera ho partecipato ad una riunione, alla fine sono stata trattenuta da un paio di persone che erano state intrattenute a loro volta da altre persone. Mi sono messa ad ascoltare cercando uno spunto per un intervento. Non ne ho trovato nemmeno uno. A meno che non dovessi parlare per luoghi comuni o dire le stesse cose in forme diverse. Ieri ho capito perché parlo così poco. Non voglio dire cose banali, né ripetere le stesse frasi con parole diverse. Io voglio uno spunto, un argomento valido altrimenti non riesco a partire, mi inceppo. Non voglio dire che gli altri sono banali e se lo fossero lo sarei anche io. Il problema è che la maggior parte della gente sente il bisogno di parlare, di dire la propria, di farsi sentire e così facendo testimoniano la loro presenza. Io faccio tutto al contrario. Tanto è vero che la mia lunga chiacchierata con lo sconosciuto reggente del faro ha lasciato perplesso il mio accompagnatore.
Pur sentendomi (o essendo) un’aliena, io in questa città, però, ci vivo e ho l’obbligo morale di impegnarmi affinché le cose possano andare meglio. Magari, il mio impegno potrebbe far sì che la città nella quale mi sento estranea, si trasformi nel mio ambiente. Lo spero davvero tanto, visto che momentaneamente mi sento un pesce d’acqua dolce in mezzo all’oceano.
La città non appartiene solo a chi vi è ben radicato dentro e ha le sue belle ramificazioni. Anche a me spetta uno spazio, un angolo o perché no, una bella piazza. Tutto giusto, almeno lo sembrerebbe. Ma chi mi sa dire come realizzare tutto questo?

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