Noie
Ieri è stata una bellissima giornata, fino a quando … C’è sempre un fino a quando se mi capita di essere contenta. Contenta per la vittoria di Buscema; contenta di vedere contenti i consiglieri e gli assessori eletti; contenta di vedere contenti i familiari di tutti loro. Contenta per tutti, ma mai per me stessa.
Cosa ha rovinato la mia giornata? La solita cosa. IL MIO LAVORO.
Ho speso dieci anni della mia vita dentro questo ufficio. Ho ottenuto il posto grazie alle mie forze e non grazie a qualcuno. Ho dimostrato di essere brava, affidabile, versatile. Una su cui si può contare. E invece?
Invece arriva un giorno nel quale realizzi che di te, da un punto di vista umano, non interessa nulla. Non sono un anonimo numero come nelle grandi aziende. E’ molto peggio. Cercano di abbindolarmi lasciandomi credere di essere importante, necessaria. Mi incitano a parlare, chiarire, esprimere le mie opinioni, i dubbi, le perplessità. Mi rassicurano sulla soluzione dei miei problemi, salvo poi non muovere un dito. Salvo poi preferire che gli altri vadano avanti prima di me. Salvo fare spazio agli altri a scapito mio. Tanto io ci sono sempre, sono una garanzia, sono affidabile. Manco fossi un cane da guardia.
E pretenderebbero pure il mio più bel sorriso, la mia migliore predisposizione d’animo. Come si fa ad essere rilassati in mezzo a chi è la causa dei tuoi mali?
Proprio venerdì scorso ho avuto la prova tangibile dei miei sospetti su quanto realmente valgo qui dentro.
Qualcuno ha osato sbandierare ai quattro venti (e a tutti i colleghi) che io ho osato aggredirlo. Perché l’ho fatto? In realtà non l’ho fatto, anche se lo avrebbe meritato. In realtà ho solo fatto notare che non è professionale lamentarsi con il collega delle cose ancora non fatte (non per colpa sua, ma per mancanza di tempo) proprio mentre il collega si trova al telefono con un cliente che si stava già lamentando di suo.
L’ho detto una prima volta gentilmente: nulla. L’ho ripetuto una seconda volta in modo più fermo: niente.
La terza volta ho solo detto che era meglio parlarne dopo. La quarta ho alzato la voce.
L’avessi fatto già dalla prima volta mi sarei liberata del fastidio. Pensavo fosse passato tutto. E’ normale avere piccoli alterchi con i colleghi quando si passa la maggior parte del tempo con loro. Dopo, però, passa tutto, almeno per me. E invece no. Questo qualcuno ha reso l’avvenimento la notizia della giornata, commentando a voce alta come io l’avessi aggredito senza motivo. E per fortuna c’erano i testimoni.
Ma non è questo che mi fa rabbia. E' la consuetudine di parlarmi come se io fossi un sottoposto. Se sono considerata in questo modo, allora non ha più senso rimanere.
Non posso e non voglio scendere nei particolari. Il solo pensiero mi fa stare male e leggere le mie lamentele risulterebbe noioso anche a me stessa. Dico solo che non è giusto, non è corretto, non è umano, non è lecito agire come si agisce con me.
Nell’Ecclesiaste si legge che c’è un tempo per ogni cosa, anche per morire. E la morte a volte è necessaria per generare un cambiamento. Ovviamente non mi riferisco alla morte fisica. Devo lasciare che muoia la mia immagine di impiegata modello. Assumerò il modello da impiegata comunale in una impresa privata. Mi toccherà fare il meno possibile nel maggior tempo possibile.
Ma è proprio così in basso che bisogna scendere? Stanca di fare appello all’intelligenza altrui e all’altrui buon cuore, forse questo è l’unico modo per sopravvivere. Di venire considerata intellettualmente inferiore da chi si affanna a voler sottolineare la propria superiorità non me ne può importare più di tanto. La voglia di volerlo sottolineare mi porta a pensare che chi lo fa non possiede nulla oltre ad una pergamena e ci si aggrappa tanto perché se qualcuno gliela togliesse rivelerebbe tutta la nullità che si affanna a nascondere.
Cosa ha rovinato la mia giornata? La solita cosa. IL MIO LAVORO.
Ho speso dieci anni della mia vita dentro questo ufficio. Ho ottenuto il posto grazie alle mie forze e non grazie a qualcuno. Ho dimostrato di essere brava, affidabile, versatile. Una su cui si può contare. E invece?
Invece arriva un giorno nel quale realizzi che di te, da un punto di vista umano, non interessa nulla. Non sono un anonimo numero come nelle grandi aziende. E’ molto peggio. Cercano di abbindolarmi lasciandomi credere di essere importante, necessaria. Mi incitano a parlare, chiarire, esprimere le mie opinioni, i dubbi, le perplessità. Mi rassicurano sulla soluzione dei miei problemi, salvo poi non muovere un dito. Salvo poi preferire che gli altri vadano avanti prima di me. Salvo fare spazio agli altri a scapito mio. Tanto io ci sono sempre, sono una garanzia, sono affidabile. Manco fossi un cane da guardia.
E pretenderebbero pure il mio più bel sorriso, la mia migliore predisposizione d’animo. Come si fa ad essere rilassati in mezzo a chi è la causa dei tuoi mali?
Proprio venerdì scorso ho avuto la prova tangibile dei miei sospetti su quanto realmente valgo qui dentro.
Qualcuno ha osato sbandierare ai quattro venti (e a tutti i colleghi) che io ho osato aggredirlo. Perché l’ho fatto? In realtà non l’ho fatto, anche se lo avrebbe meritato. In realtà ho solo fatto notare che non è professionale lamentarsi con il collega delle cose ancora non fatte (non per colpa sua, ma per mancanza di tempo) proprio mentre il collega si trova al telefono con un cliente che si stava già lamentando di suo.
L’ho detto una prima volta gentilmente: nulla. L’ho ripetuto una seconda volta in modo più fermo: niente.
La terza volta ho solo detto che era meglio parlarne dopo. La quarta ho alzato la voce.
L’avessi fatto già dalla prima volta mi sarei liberata del fastidio. Pensavo fosse passato tutto. E’ normale avere piccoli alterchi con i colleghi quando si passa la maggior parte del tempo con loro. Dopo, però, passa tutto, almeno per me. E invece no. Questo qualcuno ha reso l’avvenimento la notizia della giornata, commentando a voce alta come io l’avessi aggredito senza motivo. E per fortuna c’erano i testimoni.
Ma non è questo che mi fa rabbia. E' la consuetudine di parlarmi come se io fossi un sottoposto. Se sono considerata in questo modo, allora non ha più senso rimanere.
Non posso e non voglio scendere nei particolari. Il solo pensiero mi fa stare male e leggere le mie lamentele risulterebbe noioso anche a me stessa. Dico solo che non è giusto, non è corretto, non è umano, non è lecito agire come si agisce con me.
Nell’Ecclesiaste si legge che c’è un tempo per ogni cosa, anche per morire. E la morte a volte è necessaria per generare un cambiamento. Ovviamente non mi riferisco alla morte fisica. Devo lasciare che muoia la mia immagine di impiegata modello. Assumerò il modello da impiegata comunale in una impresa privata. Mi toccherà fare il meno possibile nel maggior tempo possibile.
Ma è proprio così in basso che bisogna scendere? Stanca di fare appello all’intelligenza altrui e all’altrui buon cuore, forse questo è l’unico modo per sopravvivere. Di venire considerata intellettualmente inferiore da chi si affanna a voler sottolineare la propria superiorità non me ne può importare più di tanto. La voglia di volerlo sottolineare mi porta a pensare che chi lo fa non possiede nulla oltre ad una pergamena e ci si aggrappa tanto perché se qualcuno gliela togliesse rivelerebbe tutta la nullità che si affanna a nascondere.
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