Chimere e Tradimenti


C’era una volta una vecchietta, molto povera e sola che viveva in una piccola vecchia casa. Era tanto povera che spesso non aveva da mangiare e doveva arrangiarsi come poteva. Una mattina di inverno, la vecchietta, trovò per strada una moneta. Non le sembrò vero. Era un regalo dal cielo. Tornò a casa tutta contenta perché quel giorno avrebbe mangiato, si sedette sul suo dondolo sgangherato, rigirandosi la moneta fra le mani. Presto, tutta quella contentezza si trasformò in confusione. Perché la moneta era una, la fame tanta e la scelta doveva essere razionale e studiata.
La vecchietta cominciò a chiedersi: “Cosa compro, cosa compro? Se compro un cavolo, eliminate le foglie dure non resterà praticamente nulla”. “Cosa compro? Se compro una cipolla, tolta la sfoglia esterna, resterà così piccola che non mi resterà nulla”.  “Cosa compro allora”. Nel chiedersi cosa comprare, era già arrivato il pomeriggio. La vecchietta a quel punto ebbe un’idea. Avrebbe comprato del latte e del pane. Avrebbe così mangiato e bevuto e la moneta le sarebbe bastata per comprarne in quantità tale da sfamarsi anche il giorno dopo. Così la vecchietta andò a comprare il latte e il pane e poi, per ringraziare il Signore, conservò il latte e il pane in una vecchia madia e andò a messa.
Non riuscì a pregare come avrebbe voluto, la fame era tanta e la voglia di tornare a casa a mangiare le mise una tale agitazione che la portò a sperare che la messa finisse in fretta. Quando il prete diede la benedizione, la vecchietta filò dritta a casa, tolse lo scialle e il fazzoletto, aprì la madia e non trovò nulla. Un topolino aveva bevuto il latte e mangiato il pane. La vecchietta si accontentò delle briciole lasciate che inzuppò nelle gocce rovesciate dal pestifero topolino.
Questo racconto, vecchio come Noè o ancora di più, me lo raccontava mia mamma per distrarmi e infilarmi una cucchiaiata di minestra in bocca. Questo racconto, per quanto possa sembrare sciocco, insegna a cogliere l’attimo, al vivere l’oggi e non il domani.
Sono riuscita a racimolare un piccolo gruzzoletto. Il risultato di qualche spicciolo quotidiano o settimanale depositato in un piccolo salvadanaio o da qualche piccolo regalo in moneta ricevuto per Natale o per l’onomastico o per il compleanno. Niente di che, ma bastevole per andare in quel luogo che mi fa battere il cuore. Ma come la vecchietta mi sono fatta prendere dalla confusione.  Il mio cuore di leone mi dice di mollare tutto e partire, come viene, viene.  Il mio cervello in preda ad un raptus da raziocinio misto a giudizio di una novantenne, mi suggerisce di lasciar perdere tutto, conservare il gruzzoletto nella mia madia personale e aspettare l’anno prossimo così da fare un viaggio più bello e più lungo. La seconda opzione sembra la più saggia, ma non è possibile fare una proiezione del futuro. La voglia di scappare, perché di scappare si tratta, la provo adesso.  La coda da pantera in gabbia che si agita e dimena per cercare di far scemare l’inquietudine e la rabbia, non si placherà. Pensavo fosse sciocco dire che si ha bisogno di prendersi del tempo, finché non è capitato a me. Se prendersi del tempo per pensare, maturare, riflettere lo si fa rimanendo nello stesso punto, se non si riesce a mettere la giusta distanza fra i problemi e sé stessi, allora è impossibile guardare le cose da altre prospettive.
Io posso riempire il mio tempo, posso ridipingere tutte le pareti e le porte di casa, posso sistemare quello che c’è da sistemare, pulire quello che va pulito, organizzare quello che va organizzato, ma non riuscirò a riordinare la confusione che c’è dentro di me. Sarà come mettere la spazzatura sotto al tappeto, infilare a forza tutte le cianfrusaglie dentro ad un cassetto. Ma se per un incidente qualsiasi, se per uno stupido pretesto toccasse spostare il tappeto o riaprire il cassetto tutto verrebbe sputato fuori, come il tappo dello spumante.
Io, codarda, ho scelto di scappare, ma non riesco a progettare la fuga. Non sono mai stata una sottile stratega.

In questi giorni pesanti mi sono resa conto quanto mi manchi, e sul serio, un’amica.  In questi giorni ho capito quanto sia triste un telefono che non squilla, il campanello di casa che non suona e come sarebbe bello se a chiamarti o a venire a trovarti fosse un’amica. In questi giorni pesanti, avrei desiderato che a cercarmi fosse pure una semplice vicina di casa. Invece sono rimasta sola a cercare di ricacciare dentro quel nodo in gola che non si scioglie mai. Perché accanto puoi avere qualcuno che ti ama ed è disposto ad ascoltare ogni tuoi singolo lamento, ma non potrà mai diventare la tua migliore amica. Perché non puoi torturalo con le tue chiacchiere da donnina, non puoi mai farlo innamorare delle tende a fiori o della lampada finto-tiffany che danno in promozione. Perché non puoi raccontargli dei tuoi proverbiali mal di pancia, della tua isteria pre-ciclo o dei lancinanti mal di testa. Perché può solo ascoltare, ma non potrà mai immaginare fino in fondo. Perché non è una donna e delle donne non saprà mai abbastanza. Mai quanto una vera amica sa di te. 
Le mie amiche sono evaporate l’una dopo l’altra. Quella a cui tenevo di più è morta che era solo una ragazzina. Per un po’ di tempo ho fatto benissimo senza, adesso, sarà l’età, sarà che è arrivato il periodo dei bilanci, ne sento la mancanza. Temo di trasformarmi come mia mamma. Lei, la sua casa, le domeniche davanti alla TV e mai un gelato al lungomare, una pizza di sabato sera o le giocate a carte a Natale.
Il mio vuoto attorno è più arido dello scempio che lascia un incendio. Perché qualche giorno fa, la stessa persona che mi  aveva dichiarato con tanto entusiasmo che ero una delle sue più care amiche, si è comportata per quella che è: un’arrogante e viziata figlia di papà. Perché le ho permesso di trascinarmi e fare comunella con le sue amiche del caffè giornaliero : “tanto le conosci tutte no?”. Salvo organizzare con loro la cena della sera seguente, la mattinata al mare e il pic-nic in piscina con annesso barbecue e regalarmi del fumo passivo che mi ha rintronata. Poi, dopo un’ora piena di discussioni su cosa porti tu e cosa cucino io e di consigli su come fare questo e quello che manco Nonna Papera, si è ricordata della mia esistenza e mi ha chiesto “Come le stai passando le vacanze?”. Le ho risposto: “ Al lavoro”. Ma che razza di domanda è? Potevo solo alzarmi e cambiare sedia. Cosa che ho provveduto a fare. 
Quello che resta però, non è delusione, non è dolore, non è sofferenza. E’ l’amarezza che si prova quando si ha ragione e proprio non si vorrebbe averla. E poi rabbia. Perché ormai si è grandi e non si può più bisticciare in modo plateale, mettere gli indici a formare una croce e recitare quella formuletta sciocca che declama la fine di un’amicizia. Non si può. E non serve nemmeno spendere parole, perché questa pseudo-amicizia non le vale neppure.

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