Think Pink
Non
direi mai di me stessa, se capitasse di dovermi descrivere, che sono un tipo
piagnone. Sono spesso il buffone di corte. Altre volte così discreta che non ci
si accorge della mia presenza.
Però mai piagnucolona, lagnosa o piangiaddosso.
E’ vero: l’ottimismo, per me, è come il riso da piccola. Una scatola nei banchi
del supermercato. Pasto sconosciuto perché mia mamma lo odiava. Allo stesso
modo non conoscevo l’ottimismo perché a casa mia non è mai stato ospite. Però,
se ho avuto modo di conoscere il riso a casa di amici e di imparare a
cucinarlo, non è stata la stessa cosa con l’ottimismo. Quello non si trova al
supermercato. Nemmeno in quelli più forniti.
Ho
vissuto anni senza conoscere l’ottimismo e come per chi nasce monco di un arto,
la mancanza era fisiologica e non me ne sono accorta neppure. Poi, crescendo,
capita di relazionarsi agli altri e ci si accorge che la vita può essere
accolta nei modi più svariati.
Il
mio modo di accogliere la vita? Più che prudente direi prevenuto. Mi ha
regalato un bel po’ di calci in faccia la vita e fanno un casino di male. So
che non potrò mai diventare leggera come quella mia collega che sembra pattinare
con grazia sui giorni che compongono la sua esistenza. Né potrò essere come
quella che vive come un re sulla portantina. Io sono quella che guarda perché
mi hanno insegnato solo a guardare e a notare le differenze fra me e loro.
Sarà
per questo che continuo ad osservare la gente con insistenza, convinta che
siano tutti più belli, fortunati, felici, soddisfatti e sereni di me. So di sbagliare
a crederlo, ma è un vizio difficile da cacciare via.
Capita
di leggere qualche post scritto da me. Generalmente non leggo mai quello che
scrivo. Vado di pancia e pubblico. Non mi pongo il problema se qualcuno
leggerà. Non di certo per strafottenza. Capita che legga un mio post, dicevo, e ammetto di sembrare quella che non sono: una
persona triste e lagnosa. Forse perché nella mia vita reale non mi sentirete
mai lamentarmi di qualcosa. Dire che sto male o che sono infelice. Forse,
proprio perché vivo i miei sconforti senza manifestarli quando scrivo vengono
fuori le paturnie nascoste, scappano i problemi come cavalli selvaggi dal
recinto. E appaio cupa e triste e infelice. Quale forse veramente sono.
Però
non chiedetemi di essere ottimista. Di pensare positivo, di crederci per prima
e poi le cose andranno per il meglio. Non è così. Se bastasse l’ottimismo cose
più ben più gravi delle mie andrebbero a posto da sole.
L’ottimismo
è una disposizione d’animo. C’è chi è predisposto e chi no. C’è chi sa cantare,
disegnare, suonare uno strumento. Esistono i Gastone della situazione e anche i
Paperino. C’è chi da blog, riviste, trasmissioni illude i malati da pessimismo
che l’ottimismo si possa imparare. Scrive articoloni, fa bei discorsi poi ti
chiede di pagare per insegnarti la formula definitiva. Quando si dice che l’ottimismo
paga! Perdonatemi la battuta banale.
E’
vero. I mie post sono spesso tristi e privi di speranza. Ce ne sono altri,
davvero pochi, nei quali anche io ho pattinato leggera sui giorni della mia
vita: fari visitati, viaggi compiuti.
Scriverò
mai un post pieno di speranza? Non lo so. Eppure ogni giorno, una parte di me
spera. Spera appena metto i piedi fuori dal letto e osservo commossa la pioggia
che batte sui tetti o il raggio di sole che entra dalle persiane semichiuse. E
spera quando la sera spengo la luce e osservo la notte, la lama di luce che mi
regala la luna, la strada bagnata dall’umidità, l’ombra del campanile che si
riflette sulla piazza. Però non ammetto nemmeno a me stessa di sperare.
Perché non sono prudente ormai, ma prevenuta.
PS fuori contesto: Le carole natalizie! Altra storia. Le chiamo così dalle elementari. La mia maestra mi ha insegnato a chiamarle così. Poi ho letto che gli inglesi hanno a che fare con certe cristhmas carol e allora non c'è stato altro che chiamare così le canzoni di natale.
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